Chi, come me, si batte da anni per la costruzione e il consolidamento di una Europa sociale contava molto sull’approvazione definitiva della Direttiva sui lavoratori delle piattaforme. Purtroppo, il Consiglio europeo ha detto ‘no’ al testo di un provvedimento progressista e fondamentale che, come Deputata della Commissione Occupazione e Affari Sociali del Parlamento europeo, ho contribuito a migliorare.
DIRETTIVA LAVORATORI DELLE PIATTAFORME, ITER LUNGO E FATICOSO
Dopo tre anni di trattative, l’Europa aveva finalmente l’opportunità di dire basta a un decennio di ingiustizie e salari da fame per milioni di rider, tassisti e altri fornitori di servizi che lavorano tramite App.
Il percorso legislativo non è stato facile. Abbiamo dovuto superare diversi ostacoli, soprattutto negli ultimi mesi, quando si sono svolti i negoziati con i paesi membri. Tuttavia, confidavo nel fatto che alla fine avrebbe prevalso la linea del buon senso e la giustizia sociale.
COSA È SUCCESSO AL CONSIGLIO UE?
Sono rimasta, quindi, molto delusa dal fatto che il Coreper – Comitato dei rappresentanti dei paesi membri – non sia riuscito a trovare un accordo su una Direttiva così importante, rimandando di fatto la sua eventuale approvazione alla prossima legislatura europea. Il destino di questa riforma cruciale è appeso a un filo, perché il suo via libera dipenderà anche dalla nuova maggioranza politica che guiderà il Parlamento europeo a partire da settembre 2024 e in generale dai nuovi equilibri politici post-elezioni.
I blocchi del “Sì” e del “No” sono guidati rispettivamente da Spagna e Francia. A non convincere il liberale Presidente Emmanuel Macron, già nel dicembre scorso, sono i criteri per la riqualificazione dei lavoratori e delle lavoratrici delle piattaforme, da autonomi a dipendenti. In verità un tassello cruciale della riforma, che, nella visione del governo francese, invece, risulterebbe eccessivamente «automatico».
La Spagna ha sempre considerato l’approvazione della Direttiva sui lavoratori delle piattaforme un esercizio di responsabilità. A fare da ago della bilancia è stata però la Germania, dove il governo a semaforo vede alleati i Socialdemocratici, con i Verdi e i Liberali. In Germania è già previsto per legge che i lavoratori e le lavoratrici delle piattaforme siano assunti con contratto subordinato, eppure non sono mancati scioperi da parte dei gig worker che continuano a rivendicare maggiori diritti e tutele.
L’entrata in vigore di una Direttiva europea sui lavoratori delle piattaforme avrebbe uniformato le regole in tutti i 27 Paesi membri; e ostacolato quei governi nazionali e quelle forze politiche che spingono per un mercato unico europeo in cui si favoriscano le multinazionali anche a costo d’indebolire il lavoro sano e di qualità.
PIATTAFORME, UN SETTORE IN ESPANSIONE CHE HA BISOGNO DI REGOLE CHIARE
L’economia delle piattaforme è destinata a consolidarsi come comparto produttivo del mercato unico europeo. Un segmento di mercato che è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni: le entrate sono passate da tre miliardi di euro nel 2016 a circa 14 miliardi di euro nel 2020 e il numero di lavoratori delle piattaforme dovrebbe raggiungere i 43 milioni entro il 2025.
La gig economy ha arricchito le multinazionali a discapito delle condizioni di lavoro e di vita di milioni di lavoratori e lavoratrici, 28 milioni circa, attualmente, ma che secondo le stime della Commissione europea sono destinati ad aumentare ancora fino al 2050.
Stando all’ultima rilevazione Istat disponibile, invece, in Italia le persone tra i 15 e i 64 anni che nel 2022 hanno dichiarato di aver svolto un lavoro tramite una piattaforma digitale sono 565 mila. Un numero molto probabilmente sottostimato, poiché non esiste un censimento consolidato del numero di gig worker nel nostro Paese.
La crescita esponenziale dell’economia delle piattaforme – coincisa con la pandemia di Covid-19 – ha mostrato la necessità e l’urgenza di dare norme chiare e stringenti per tutelare questi lavoratori e lavoratrici soprattutto dall’utilizzo indiscriminato, opaco, pervasivo e sbagliato degli algoritmi.
I LAVORATORI DELLE PIATTAFORME IN ITALIA
Non esiste un censimento completo degli addetti della gig economy, nota anche come Economia dei lavoretti. Una indagine dell’Inapp però non solo conferma il mezzo milione circa di addetti ma ci consente anche di comprendere la qualità delle condizioni di vita e di lavoro di rider e impiegati delle piattaforme. L’80 per cento dei lavoratori svolge l’attività tramite App come “attività principale”. Di quel mezzo milione, un terzo non ha un contratto! E solo l’11 per cento è inquadrato come dipendente.
Consegnare pasti, trasportare le persone da una parte all’altra delle città, tradurre online, impartire lezioni online etc etc è “una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale” mentre per la metà circa 274mila persone rappresenta l’unico lavoro. L’altro dato significato dell’indagine Inapp “Lavoro virtuale nel mondo reale” del 2022 è che uno su due decide di lavorare tramite le piattaforme perché non riesce a trovare un altro impiego.
INDAGINE INAPP
A seguito di questo censimento, l’Inapp ha dichiarato che la sharing economy o gig economy – che nella realtà ha poco il sapore di essere solo una economia dei lavoretti – “Le piattaforme digitali richiamano sempre di più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi), pagate spesso a cottimo”. E infatti sull’ 80,3 per cento di rider e impiegati che svolgono il proprio lavoro tramite App come attività principale, il 50,4 per cento è pagato con un sistema che viola i diritti basilari giuslavoristici.
Altro quindi che autonomia, indipendenza e flessibilità! La eccessiva deregolamentazione di questi anni, in Italia ha contribuito al fenomeno del caporalato digitale. Circa tre lavoratori su 10 non hanno un contratto scritto. Il 26 per cento non gestisce direttamente l’account per accedere alla piattaforma. Nel 13 per cento dei casi il pagamento viene gestito da un soggetto esterno. Insomma, come è emerso anche nelle tante inchieste giudiziarie di questi anni contro le piattaforme digitali, il rischio di abusi e sfruttamento è elevato e va contenuto.
IL MIO CONTRIBUTO ALLA DIRETTIVA
In questi anni mi sono impegnata tanto affinchè questa Direttiva potesse vedere la luce. Le mie proposte sono sempre andate tutte nella direzione di voler assicurare ad ogni gig worker protezione, grazie a regole giuste e chiare.
Con le norme previste nel testo della Direttiva abbiamo proposto che ogni decisione assunta dagli algoritmi sia essere trasparente e rispettare i diritti basilari del lavoro, garantendo a ogni lavoratore il potere di contestare le decisioni ingiuste.
Non solo. Ho sostenuto, senza esitazioni, che i lavoratori e le lavoratrici delle piattaforme potessero contestare la natura del rapporto con la piattaforma, convinta che si debba combattere con forza, per restituire dignità al lavoro, l’odioso fenomeno dei falsi autonomi, che come tali hanno meno diritti e meno tutele, soprattutto, in termini di salute e sicurezza.
Le elezioni europee sono dietro l’angolo. Non mi stupisce dunque questa brutta battuta di arresto. Le pressioni delle piattaforme sono state forti in questi anni. Le multinazionali americane sbarcate in Europa nel 2013 hanno potuto godere di una forte deregolamentazione e dell’assenza del legislatore europeo. Negli anni scorsi le piattaforme non hanno nascosto di essere pronte ad abbandonare il mercato europeo dinanzi a norme troppo stringenti. Ora, i governi nazionali si giocano il consenso alle Europee e credo che abbiano pensato che fosse il caso di cedere e aspettare, ma a quale prezzo per milioni di lavoratori?