La guerra israelo-palestinese è una delle peggiori notizie del 2023 e di una Legislatura europea, oramai agli sgoccioli, tormentata e difficile. Non una, bensì due grandi conflitti bussano alle porte della Unione europea, la quale in politica estera non è in grado, ancora, di pensare e di agire come un attore unico.
Se il 24 febbraio 2022 l’aggressione della Russia all’Ucraina ha aperto una fase geopolitica ed economica dominata dalla incertezza e dalla insicurezza, l’attacco terroristico di Hamas contro Israele, il 7 ottobre scorso, ha acuito tale incertezza e tale insicurezza a livello globale.
Il 7 novembre scorso è stato l’anniversario di un attentato orribile, inizio di una escalation che rischia di trasformarsi in un conflitto di «logoramento».
La rappresaglia durissima di Israele sta continuando a fare vittime tra i civili palestinesi e non solo tra i terroristi di Hamas. I miliziani sono abili nel nascondersi nei cunicoli sotterranei costruiti sotto la Striscia di Gaza e non si fanno problemi a utilizzare donne, uomini e bambini come scudi umani, anche sfruttando ospedali, ambulanze e scuole dell’ONU.
L’EMPASSE E IL NODO DELLA VITTORIA
La situazione è drammatica, tanto più che i 200 ostaggi israeliani, rapiti il giorno dell’attentato del 7 ottobre scorso, restano ancora nelle mani di Hamas.
Il diritto di difendersi e di mettere in sicurezza Israele è garantito dalle norme internazionali. Ma il governo di unità nazionale, comunque guidato dal Primo ministro Netanyahu, in estremo affanno e criticato anche dagli stessi israeliani, sta dimostrando a poco a poco la sua inadeguatezza.
La frase choc sulla bomba atomica contro Gaza, pronunciata dal ministro per la Tradizione Ebraica, Amichai Eliahu, esponente di estrema destra con la quale, in tutti questi anni, Netanyahu ha deciso di allearsi, è la prova di precari e pericolosi assetti politici.
A rischio la incolumità di un popolo martoriato, dinanzi alla ostinazione del Premier israeliano di continuare la avanzata di terra e i bombardamenti su Gaza. Innesco di un conflitto senza fine, e soprattutto, senza neppure una tregua umanitaria che, per prima, l’Unione europea ha chiesto in una risoluzione votata dal Parlamento in seduta Plenaria, alla fine di ottobre.
Ma il potere di moral suasion dell’Ue, anche in un contesto come quello dell’Onu, è del tutto inesistente nel momento in cui i paesi membri votano in ordine sparso la risoluzione delle Nazioni Unite per chiedere una tregua umanitaria.
IL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO ALLA ESCALATION ISRAELOPALESTINESE
Come ricorderete tutte e tutti, dinanzi all’invasione russa ai danni dell’Ucraina, l’Unione europea ha risposto in modo rapido e in modo piuttosto coeso, fermo restando che ci sono alcuni Stati membri economicamente e politicamente legati a doppio filo con la Russia del Presidente Vladimir Putin, mentre altri invece lo sono stati in passato.
Basti pensare che l’Ungheria di Viktor Orbàn non ha mai tagliato del tutto i ponti con Mosca, nonostante l’atto scellerato commesso dal Cremlino ai danni di Kiev il 24 febbraio 2022, continuando così a mantenere un piede nell’Unione europea e uno nella Federazione russa.
Nei decenni passati, invece, la Germania, locomotiva dell’Unione europea, ha intessuto rapporti economici e commerciali molto importanti con la Russia, e liberarsi dal giuoco del Presidente, Vladimir Putin, non è stato né semplice né facile.
La dipendenza europea dalle forniture di gas e petrolio russo ha messo a nudo vecchie e nuove fragilità del Continente agli choc internazionali ed è per questo motivo che ho sostenuto con forza e convinzione il sostegno militare e umanitario dell’Europa all’Ucraina, le sanzioni Ue e occidentali contro Mosca, i corridoi verdi per il grano ucraino e altre misure di supporto a Kiev e infine le misure varate dall’Europa per garantire la fine della dipendenza di Bruxelles da Mosca.
FARE CHIAREZZA POLITICA È LA PRIORITÀ
Ora, però, dinanzi alla escalation di un conflitto tra due popoli mai davvero sopito, la posizione giusta da assumere deve essere netta, ma non deve polarizzare o banalizzare di certo l’enorme complessità della guerra israelopalestinese. Per questa ragione, sono convinta che sia giunto il momento di una riflessione profonda delle cause e delle responsabilità politiche, in modo particolare dell’Unione europea e dell’Occidente, su questa nuova e pericolosa crisi Mediorientale.
Parto però da una doverosa e importante premessa: non si confondano i governi con i popoli.
Non si confonda, nel caso del conflitto israelopalestinese, il governo di Bibi Netanyahu con gli israeliani e i miliziani di Hamas con i palestinesi. Farlo, sarebbe ingiusto e sbagliato, fonte di divisioni, lacerazioni, polarizzazione, estremismo e odio spostando così l’attenzione dalle soluzioni politiche utili e urgenti, da una parte a garantire la sicurezza di Israele, e dall’altro, l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Come con la guerra in Ucraina, è chiaro chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Ma sono altrettanto chiari gli errori commessi e i risvolti negativi di una guerra senza fine per la Regione.
La via della pace, di una pace giusta, parte dall’unica proposta politica e diplomatica ragionevole: quella di due Stati e due popoli che convivano pacificamente, neutralizzando dall’interno e dall’esterno, ogni forma di estremismo.
GLI ATROCI NUMERI DELLA GUERRA
Per quanto siano incerti ed estremamente difficili da verificare, i numeri relativi alle vittime del conflitto, censite fino a questo momento, sono davvero impressionanti. Nelle scorse tre settimane quasi 1.500 persone in Israele e oltre 9.000 a Gaza sono state uccise nel conflitto tra lo Stato ebraico e Hamas.
È una cifra che non ha pari negli scontri degli ultimi cinquant’anni in Palestina. Un’escalation che in molti descrivono come la più violenta degli ultimi anni, paragonabile, forse, solo alla guerra dello Yom Kippur (o guerra di ottobre) iniziata il 6 ottobre 1973 durante i festeggiamenti del Kippur. L’operazione portata avanti da Hamas ha avuto inizio a un giorno dal cinquantesimo anniversario della guerra del ‘73.
LA POSIZIONE DELL’EUROPA…
Lo scorso 19 ottobre, la Plenaria del Parlamento europeo ho votato a larga maggioranza (500 voti a favore, 21 contrari e 24 astensioni) una risoluzione non legislativa con la quale chiede fermamente che si fermino gli attacchi terroristici di Hamas e riconosce il diritto di Israele a difendersi nel rispetto del diritto internazionale umanitario.
Nello stesso tempo, l’assistenza umanitaria a Gaza deve essere intensificata prevedendo “pause umanitarie” per fornire aiuti ai civili. Nell’area della Striscia, 365 km quadrati, vivevano, prima del conflitto, 2,1 milioni di persone, molte delle quali con lo status di rifugiati e la maggior parte a forte rischio di insicurezza alimentare.
Una situazione che questa guerra sta rendendo ancora più insostenibile e disumana. Permettere ai civili in fuga di mettersi al sicuro attraverso corridoi umanitari precisi e protetti è un diritto sacrosanto che va rispettato, senza se e senza ma.
…E DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Obiettivo questo, ben definito anche nella risoluzione votata alle Nazioni Unite sulla quale l’Italia si è però astenuta. La posizione del governo Meloni equivale a un «no» ed è sproporzionata rispetto alla emergenza sanitaria e umanitaria in corso nella Striscia di Gaza.
Benché non sia stato inserito nessun riferimento esplicito ad Hamas e al terrorismo, la risoluzione dell’ONU andava sostenuta per mettere in chiaro che il diritto di rappresaglia non può violare indiscriminatamente il diritto internazionale e il diritto internazionale umanitario, come invece sta avvenendo per mano del governo Netanyahu. La strategia di Israele infatti ha fatto troppe vittime tra i civili palestinesi, migliaia sono minori.
Su questa guerra, sicuramente, pesa l’incapacità dell’Unione europea di agire e di proporsi come un unico mediatore di pace. La paura dei rigurgiti antisemiti, inaccettabili quelli che si sono verificati in queste settimane, che molto dipendono dal dilagare di xenofobia ed estremismi nel Continente, vanno arginati con politiche ad hoc.
E pesa anche la scelta dell’Occidente, in testa gli Stati Uniti, di abbandonare di fatto a se stesso tutto il Medioriente. Il disimpegno dell’Occidente ha sacrificato molto il dialogo e la deterrenza diplomatica per frenare pericolosi interessi politico-religiosi da parte di diversi paesi della Regione.
Dopo i fallimenti in Afghanistan, Iraq e Siria, il disimpegno internazionale sta costando caro al mondo.
È, dunque, fondamentale che l’intera comunità internazionale, compresa l’Unione europea, comprenda i rischi di una guerra prolungata in Israele, riparta dagli errori commessi in passato e sia più critica, più dura e più netta con quei governi e regimi che intendono continuare a mantenere la regione in una situazione di completa destabilizzazione. Il prolungarsi di questa escalation è una sconfitta globale. Ancora di più, oggi, con l’Occidente e l’Europa, sempre più incapaci di dimostrare unità nelle decisioni, credibilità, forza e visione diplomatica.