Il mondo del lavoro in Italia sta cambiando. Profondamente. La pandemia di Covid-19 ha ufficialmente inaugurato una importantissima fase di trasformazione socio-economica in cui ci sono tante opportunità di progresso che spetta però alla politica cogliere e mettere a disposizione di tutti i cittadini.
Dico questo perché ho letto con grande interesse i dati dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori”.
Uno studio che ritengo confermi la fine del mercato del lavoro così come lo ha conosciuto la nostra generazione.
Diritto alla disconnessione e lavoro agile
Lo smart working è letteralmente esploso con l’emergenza sanitaria. Persino l’Italia che da ultima che era in Europa nel 2020, con appena due milioni e mezzo di lavoratori agili, è arrivata quasi in vetta raggiungendo il picco nel 2021 con nove milioni di smart worker.
Nel 2022 non potremo fare a meno del lavoro da remoto. Migliaia di privati, in verità non lo hanno mai accantonato dalla fase più acuta della pandemia. Mentre nonostante le reticenze storiche delle pubbliche amministrazioni italiane – ancora legate allo “stereotipo” del dipendente con il cartellino – lo Stato si è riorganizzato in modalità ibride che consentono ai lavoratori di alternare la presenza in ufficio col lavoro da remoto.
Uno scenario inimmaginabile solo qualche decennio fa per il nostro Paese.
Ne sono convinta. Il lavoro agile, presto o tardi, traghetterà il mercato del lavoro privato e pubblico verso un modello sociale e occupazionale semplicemente inedito. I cui limiti vanno risolti già da ora più ci avviciniamo alla fase di endemizzazione del virus.
Io credo non torneremo più indietro. Prodromo: il forte consenso che si sta via via consolidando attorno allo smart working da parte dei lavoratori, soprattutto, dei giovani.
Lo smart working va “normalizzato”. Non è più uno strumento di organizzazione del lavoro utile soltanto all’emergenza.
Con oltre il 12,3 per cento dei lavoratori europei in smart working – tutti di età compresa tra i 24 e i 64 anni, dice l’Eurostat, nella maggior parte dei casi sono donne – l’Unione europea ha iniziato una importante riflessione per risolvere le criticità emerse durante la fase più acuta della pandemia.
Una riflessione molto utile all’Italia.
Nel 2021 il Parlamento UE invita la Commissione a intervenire
Il primo passo lo ha fatto il Parlamento europeo, invitando la Commissione europea nel gennaio 2021 a formulare una direttiva sul diritto alla disconnessione. Una delle principalità criticità legate allo smart working e che non va inteso tanto come un nuovo diritto sociale quanto come un diritto fondamentale – abbiamo sottolineato in Parlamento – che va garantito a tutti i lavoratori e le lavoratrici europee.
Del diritto alla disconnessione che altro non è che il riconoscimento della durata massima dell’orario di lavoro parla già la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 1919.
Tra l’avvio del processo di digitalizzazione del secolo scorso e le successive politiche occupazionali, sempre più diffuse, volte a promuovere una maggiore flessibilità del lavoro, oggi si incunea lo smart working che senza una adeguata normativa a tutela degli occupati rischia di spaccare in due il mercato del lavoro.
Nessuno, prima di tutto i cittadini, vuole un mondo del lavoro duale. In cui chi timbra il cartellino o chiude la porta di un ufficio riesce a conciliare meglio i tempi di vita professionale con quelli privati. E chi invece, nonostante la flessibilità, non riesce oggi a separare il lavoro dalla famiglia. Oppure a godere di uno spazio adeguato – benefico e indispensabile – per la socialità o il proprio benessere.
I primi a capirlo sono stati i giovani. Soprattutto, se nativi digitali. Gli stessi oggi protagonisti del fenomeno delle dimissioni di massa.
Diritto alla disconnessione contro burn out, ansia, depressione e sfruttamento
Lo smart working nasce per portare avanti il lavoro per fasi, cicli ed obiettivi. Il rischio di regole poco chiare sta facendo aumentare il numero di lavoratori soggetti al burn out, a disturbi dell’ansia, della depressione e che, quasi inconsapevolmente, finiscono per essere vittime di subdole forme di sfruttamento delle quali il mondo del lavoro è già tristemente disseminato.
Dopo il Parlamento, anche la Commissione europea ha pubblicato la Dichiarazione europea dei diritti digitali con lo scopo di salvaguardare milioni di lavoratori. Un segnale, ma Bruxelles deve iniziare a fare sul serio per il mondo del lavoro, come ha fatto con il salario minimo.
Chiedere e ottenere una direttiva sul diritto alla disconnessione non è una banale battaglia identitaria. Un quadro normativo pienamente armonizzato infatti impedirebbe il dumping sociale. Ingiustificate differenze di trattamento degli smart worker sia tra le imprese – autonome su come organizzare il lavoro da remoto – sia tra i diversi Stati dell’Unione con il rischio di inaccettabili sperequazioni nel mercato interno.
Al momento Belgio, Spagna, Germania, Irlanda e Francia disciplinano tutte in modo differente il diritto alla disconnessione che sappiamo bene può non coincidere con la semplice connessione al pc, tablet o smartphone e di cui naturalmente nel nostro caso la Legge italiana n.81 del 2008 non fa neppure menzione.
Il 50 per cento dei lavoratori under34 denuncia disturbi psichici a causa del lavoro agile. Eppure, non sono disposti a rinunciarvi, e chiedono tutele e diritti e di allontanare la prospettiva di un rapporto tossico con il lavoro.
Ho detto che lo smart working va normalizzato per le giovani generazioni penalizzate dalla pandemia ma anche dal mercato del lavoro.
Il ruolo dell’Europa sarà ancora una volta decisivo. Per questo, ho chiesto direttamente alla ministra del Lavoro, Elisabeth Borne, cosa intende fare sul diritto alla disconnessione la presidenza francese.
Diritto alla disconnessione, i primi semi con la presidenza francese
Parigi è già intervenuta. Mettendo in campo una legislazione che obbliga le imprese con almeno 50 dipendenti a negoziare accordi sindacali in cui sia previsto il diritto dei lavoratori a disconnettersi dai dispositivi fuori dall’orario di lavoro. Se questo accordo non c’è, le aziende devono comunque impegnarsi a stabilire una policy precisa.
Proprio perché la Francia è stato il primo vero precursore in Europa sul diritto alla disconnessione, ritengo che, come su altre importanti battaglie per l’affermazione dei diritti sociali, l’attuale presidenza possa fare la differenza, agevolando l’inizio di un percorso legislativo sul tema.
La direttiva gioverebbe all’Italia, dove non credo basti, per quanto legittimo, un Protocollo con i privati per garantire i lavoratori in cui tutto si basa ancora sull’adesione volontaria e su accordi individuali.
Il diritto alla disconnessione sia per tutti e sia soprattutto normato da una legge con cui non ci limitiamo a rincorrere i cambiamenti ma li interpretiamo e li codifichiamo nell’interesse di tutti.
Non lasciamo che nuove disuguaglianze e squilibri si aggiungano a quelli già esistenti nel mondo del lavoro.