Salario minimo, quattro grane per il governo Meloni

Sul salario minimo, il governo Meloni si ostina a voltare la testa dall’altra parte. Anche la pronuncia del CNEL, il 12 ottobre scorso, non ci ha sorpreso affatto. Ritengo però che la «fronda» interna al Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro sia un dato politico molto importante.

La pronuncia del CNEL, approvata a maggioranza dai consiglieri che lo compongono, è arrivata dopo accese discussioni al proprio interno: in effetti non tutti concordano sul fatto che il salario minimo legale, come chiedono le opposizioni, sia un pericolo per il Paese. Al contrario. Il «no» del CNEL però ha aiutato il governo Meloni ha rinviare per la terza volta in pochi mesi la discussione sul tema in Parlamento e a prendere o meglio a perdere altro tempo.

Grazie alla bocciatura del CNEL, il governo e la maggioranza è riuscita a presentare la richiesta di un rinvio del ddl delle opposizioni alla Commissione Lavoro. Suonano come una presa in giro le parole del Presidente della stessa Commissione, Walter Rizzetto (Fratelli di Italia): «Occorre una ulteriore istruttoria». E’ davvero così?

Il governo Meloni ha avuto sei mesi e poi 60 giorni – se solo avesse voluto – per spiegare a milioni di italiane e di italiani perché la proposta di legge sul salario minimo del PD e delle altre opposizioni non era convincente e quali articoli e quali passaggi della proposta erano inadeguati. Invece, niente. Solo: disinformazione e propaganda.

I NO DELLE DESTRE FANNO SOLO PERDERE TEMPO PREZIOSO

Il governo Meloni e le destre hanno dunque dimostrato di non avere una proposta alternativa a quella formulata dal PD, M5S, Azione, Verdi e Sinistra Italiana e Più Europa.

Al contrario, emerge chiaramente come siano molto abili ad alzare barricate inutili e dannose per il Paese e molto bravi a dire «no». Sempre «no». Le destre italiane dicono «no» a tutto. «No» al salario minimo, «no» al reddito di cittadinanza, «no» alla parità di genere «no» a tante altre battaglie di giustizia sociale, spesso, tradendo i voti espressi al Parlamento europeo o nel peggiore dei casi votando in modo contraddittorio.

Mi chiedo, allora, qual è la visione che il governo Meloni e le forze politiche che lo sostengono hanno del futuro del nostro Paese contro la povertà lavorativa, la precarietà o per i giovani che scappano all’estero? Al governo Meloni non resta molto altro tempo per tergiversare.

Sono almeno quattro le grane per il governo Meloni sul salario minimo.

LA RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Uno dei primi punti su cui intervenire se si vuole realmente assumere l’impegno di migliorare le condizioni di lavoro, la qualità dell’occupazione è il rafforzamento della contrattazione collettiva.

Lo stesso CNEL, infatti, suggerisce l’adozione di un piano di azione nazionale a sostegno della contrattazione collettiva per superare aree e situazioni di criticità. E raccomanda “di garantire il regolare funzionamento della contrattazione collettiva”.

Al Parlamento europeo abbiamo messo nero su bianco l’importanza di questo passaggio, raccomandando ai paesi membri di regolare l’80 per cento dei rapporti di lavoro pubblici e privati con una contrattazione collettiva adeguata e soprattutto che funzioni bene.

Ed è qui che, nel caso dell’Italia, si evidenziano delle criticità.

In effetti, nel nostro Paese oltre il 90 per cento dei rapporti di lavoro tra settore pubblico e settore privato è coperto dai cosiddetti contratti collettivi nazionali di lavoro (o CCNL). Peccato però, come spiego più avanti, che questa percentuale sia in un certo senso ‘gonfiata’.

E lo è proprio perché la contrattazione collettiva non funziona come dovrebbe, insidiata da centinaia di contratti di comodo o pirata e dall’assenza della rappresentanza sindacale in diversi settori produttivi, soprattutto, quelli in cui i lavoratori e le lavoratrici sono atipici e/o legati a nuovi ambiti professionali.

È tempo quindi che Meloni e il suo governo smettano di raccontare fake news e comincino a lavorare a una riforma che rafforzi il ruolo della contrattazione collettiva per garantire condizioni di lavoro dignitose a milioni di lavoratori.

OPPOSIZIONI FERME SULL’OBIETTIVO

Sul nodo della contrattazione collettiva la nostra proposta è chiara e punta a rafforzare la contrattazione collettiva, facendo valere per tutte le lavoratrici e i lavoratori di un settore la retribuzione complessiva prevista dal contratto collettivo firmato dalle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative.

Solo in questo modo si combattono i contratti “pirata”, le false imprese, le false cooperative e le esternalizzazioni che servono proprio a sottopagare i lavoratori, specie quelli parasubordinati e i tanti autonomi.
Noi delle opposizioni continueremo a mantenere la barra dritta e non faremo nessun passo indietro sulle proposte da noi avanzate. E mentre la maggioranza ha provato, prima, a cancellare la legge e ne ha, poi, imposto lo stop per almeno due mesi, noi siamo andati in piazza e abbiamo lanciato una petizione per il sostegno della nostra proposta che ha raccolto in poco tempo il sostegno di 500mila cittadini e cittadine.

I SONDAGGI RAFFORZANO IL CONSENSO SULLA NECESSITÀ DEL SALARIO MINIMO

A rafforzare ancora di più l’idea che l’introduzione del salario minimo è una proposta giusta c’è anche l’opinione favorevole di una ampia fascia della popolazione.

Per esempio, secondo l’ultima rilevazione Quorum/YouTrend, tre italiani su quattro sono a favore del salario minimo garantito, visto innanzitutto come strumento per avere un reddito dignitoso. Nello specifico il 75 per cento è d’accordo, il 18 per cento è contrario e il 7 per cento non sa.

L’appoggio è trasversale e pressoché unanime. Anche tra gli elettori dei partiti di governo si registra un consenso ampio: 71 per cento tra gli elettori di FdI, 67 per cento tra gli altri elettori di centro destra.

LA DIRETTIVA EUROPEA È VINCOLANTE

Vale poi la pena ricordare che il recepimento della direttiva europea sul salario minimo adeguato non è opzionale ma è un obbligo che i paesi membri, Italia compresa, devono rispettare entro due anni dalla entrata in vigore della direttiva. Nel caso in cui lo Stato non recepisca la legge europea entro il termine o non la recepisca affatto la Commissione europea è competente per avviare la procedura d’infrazione contro l’Italia.

Davanti a noi c’è la fotografia di un Paese europeo, dove un tempo la contrattazione collettiva era il cuore pulsante del sistema di relazioni industriali e che negli ultimi due decenni si è indebolita molto lasciando scoperti milioni di lavoratori e lavoratrici alle prese con buste paga da fame, precarietà, il problema del mismatching di competenze e la eccessiva frammentazione e deregulation in diversi settori produttivi.

Una situazione non più sostenibile che non può più essere gestita a colpi di propaganda e misure che rischiano di alimentare i problemi del mercato del lavoro. Occorre visione e coraggio nelle scelte per rilanciare il Paese e affrontare le sfide che ci attendono.